
Il chavismo ha prodotto una crisi umanitaria senza precedenti, scrive il Washington Post
“Il viaggio di 350 miglia per Bogotá è allo stesso tempo una marcia forzata e un pellegrinaggio”, scrive Michael Gerson del Washington Post in un reportage dal confine tra Colombia e Venezuela: “Gli uomini e le donne sono spinti dalla fame e dalla disperazione in Venezuela e sperano in un nuovo inizio in Colombia, Ecuador, Perù o altrove.
A questo punto della crisi venezuelana, molti uomini sono già partiti in cerca di lavoro e le famiglie ora li seguono percorrendo una enorme distanza in ciabatte e con dei vestiti poco adeguati alle temperature fredde della montagna.
I bambini trascinano i propri bagagli, e le madri tengono in braccio i neonati che piangono.
Alcune organizzazioni umanitarie hanno installato dei centri di assistenza lungo la strada che forniscono ristoro agli emigranti.
‘Non c’è lavoro e non c’è da mangiare (in Venezuela)’, mi dice una donna a El Diamante: ‘Non riesco a comprare il latte e i pannolini’.
Il presidente dell’organizzazione umanitaria World Vision U.S., Edgar Sandoval, che ha vissuto in Venezuela da ragazzo, mi spiega che ‘un tempo molte persone emigravano in Venezuela alla ricerca di una vita migliore.
Oggi sono ancora in contatto con alcune persone nel paese, e mi raccontano che l’accesso all’acqua è difficoltoso, alcuni svolgono vari viaggi al giorno con una carriola per prendere quanto basta per soddisfare i loro bisogni’.
Il Venezuela è un leader mondiale nella produzione della disperazione. Nei primi anni Duemila il dittatore socialista Hugo Chávez aveva creato un sistema in cui il cibo, l’istruzione e la sanità erano gratis, e venivano finanziati dai proventi del petrolio.
Il calo del prezzo del petrolio ha fatto precipitare il sistema di sussidi. I poveri e la classe media in Venezuela erano rimasti solo con i loro stipendi, il cui valore è diminuito con l’iperinflazione.
La paga minima in Venezuela è pari a 6 dollari al mese, e un chilo di grano vale un quarto di quella cifra.
Aggiungi i blackout, gli ospedali senza garza o antidolorifici, la mancanza di carta igienica e gas per cucinare…
Inoltre c’è un regime che resta al potere attraverso oppressioni brutali, sostenute dalla violenza della guardia nazionale.
Il risultato è un paese da cui oltre 4 milioni di persone hanno deciso di scappare.
La maggior parte dei rifugiati venezuelani scappano dal ponte Simón Bolívar al confine con la Colombia.
Coloro che hanno ricevuto dei bonifici dai parenti all’estero possono permettersi un viaggio in autobus verso la propria destinazione.
Ai più poveri non resta che camminare tra le montagne, elemosinare o farsi trasportare oltre il confine.
Al Colegio La Frontera, una scuola pubblica in Colombia frequentata perlopiù da ragazzi venezuelani, ho conosciuto una rifugiata di 13 anni chiamata Jhedye.
Prima di fuggire, si arrangiava vendendo ananas abusivamente e pagando mazzette alla polizia se colta in flagrante.
Questo è ciò che è diventato l’esperimento chavista in Venezuela: l’impiego di energumeni armati per reprimere delle bambine impoverite.
Un futuro migliore richiede la fine di un regime crudele, corrotto e incompetente.
Ma nel frattempo l’emergenza umanitaria è acuta e in grande espansione.
Le organizzazioni umanitarie lavorano ai limiti delle loro risorse.
E i venezuelani proseguono il loro difficile viaggio”.
1 Luglio 2019 alle 09:10
Il Foglio
Foto Manifestazione a Caracas (LaPresse)
Giorgia Orlandi, inviata di Euronews a Lampedusa, ha parlato con uno dei 42 migranti sbarcati dalla Sea Watch 3 dopo un’odissea di due settimane nel Mediterraneo.
Dice di chiamarsi Khadim Diop, ha 24 anni ed è originario del Senegal.
Come sono stati gli ultimi giorni a bordo di Sea Watch? È vero che non avevate molto cibo?
Sì, non c’era molto cibo, solo cuscus.
Molte persone stavano male.
Non è stato facile, ma questa donna, il capitano Carola Rackete, ci ha dato coraggio, non si è mai arresa e ha tenuto alto il nostro morale. L’unica cosa di cui avevamo paura è di essere rispediti in Libia.
Ma lei ci diceva sempre di non preoccuparci, che non saremmo tornati indietro ma che ci avrebbe portato a destinazione.
È una brava ragazza, l’Unione europea dovrebbe lodarla.
Ha dato tutto, quando sono arrivati i libici per riportarci indietro lei ha resistito.
Ci sono state delle discussioni, ma lei si è opposta.
Cosa pensi delle autorità italiane e di Salvini? Lo conosci?
Sì, lo conosco. In realtà credo che in parte abbia ragione.
Davvero?
Sì, vuole che l’Europa faccia la sua parte sui migranti. La Germania deve prenderne una quota, così come la Francia e gli altri paesi. Non si può lasciare fare tutto all’Italia. C’è crisi ovunque, non è facile per nessuno.
Poco dopo le due di notte una motovedetta delle Fiamme gialle ha tentato di ostacolare l'ingresso della Sea Watch nel porto, ma la nave ha proseguito la manovra rischiando di schiacciare l'imbarcazione dei finanzieri.
"Abbiamo rischiato di morire schiacciati da un bestione di 600 tonnellate, sono stati momenti di puro terrore nella notte" dicono all'Adnkronos fonti della Guardia di Finanza. "Dicono di salvare vite umane e poi rischiano di ammazzare uomini dello Stato. Da parte del comandante è stata un’azione criminale. Punto".
"E' stata un’azione criminale - raccontano ancora fonti Gdf - la motovedetta è rimasta schiacciata sulla banchina.
Se ci fosse stato maestrale come questa mattina sarebbe stata una tragedia. Non sappiamo come sarebbe finita. I ragazzi hanno rischiato di morire".
Momenti di paura che sono durati "più di cinque minuti, cinque minuti di puro terrore", raccontano le Fiamme gialle.
Arrivano le scuse della Comandante della Sea watch Carola Rackete alla Guardia di Finanza, dopo quanto accaduto la notte scorsa sulla banchina del porto di Lampedusa, quando una motovedetta delle Fiamme gialle ha rischiato di essere schiacciata dalla nave che stava entrando in porto, sfidando il divieto.
"Vi chiedo scusa, ma non era assolutamente nelle mie intenzioni venirvi addosso", ha detto la ragazza, come apprende l'Adnkronos, al suo arrivo nella caserma della Finanza di Lampedusa dove è stata portata dopo l'arresto in flagranza di reato.
"La mia intenzione era quella di completare la mia missione, non certo di speronarvi".
E ha spiegato di avere agito così perché ha seguito "l'addestramento che ha avuto per le manovre per entrare in porto" con quella nave da 600 tonnellate.
Accusata di resistenza e violenza a nave da guerra e tentato naufragio, la capitana è ora agli arresti domiciliari come deciso dalla Procura di Agrigento che coordina l’indagine.