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Davide Di Domenico, noto a Fuscaldo per il suo attivismo ambientalista e per il coraggio di denunciare il racket estorsivo subito nella sua qualità di imprenditore, avrà ora la possibilità di ascoltare – in un’aula di tribunale – le motivazioni che avrebbero indotto il maresciallo dei Carabinieri Michele Ferrante, all’epoca dei fatti operante proprio nel comune del Tirreno cosentino, a riservargli un trattamento “inquisitorio” solitamente applicato nei confronti di persone di elevata pericolosità pubblica e sociale.

L’accusa, sostenuta congiuntamente dal dott. Pierpaolo Bruni – a capo della Procura della Repubblica di Paola – e dalla sostituta Maria Francesca Cerchiara, imputa al sottufficiale dell’Arma una serie di reati che vanno dalle perquisizioni e ispezioni arbitrarie, alle lesioni personali aggravate, nonché minacce e abuso d’ufficio.

Ripercorrendo la vicenda bisogna partire da una fotografia, uno scatto effettuato nel corso di un comizio elettorale proprio da Davide Di Domenico il quale, successivamente al “click”, sarebbe stato oggetto di un’operazione di controllo talmente vigorosa da averne cagionato un trauma al gomito destro, con frattura del capitello radiale (prognosi: 95 giorni).

Motivo di tanto “zelo”, stante l’accusa messa a segno da Bruni e dalla Cerchiara, sarebbe stata l’eventualità secondo cui il maresciallo Ferrante avrebbe operato al fine di impedire al Di Domenico di fotografarlo insieme alle persone con cui si intratteneva.

Tutto ciò in spregio – secondo il Procuratore Capo e la sua sostituta – degli articoli 97 della Costituzione e del 36 e 57 del regolamento di disciplina militare, in quanto – libero dal servizio ed in abiti civili – eseguiva una perquisizione ed una ispezione personale senza alcuna giustificazione, omettendo di redigere il verbale delle operazioni compiute.

Anzi, all’esito dell’operazione, lo stesso Di Domenico è stato deferito all’autorità giudiziaria per un procedimento penale a suo carico che, la stessa Procura – dopo aver comunque autorizzato il sequestro del telefonino dell’uomo – ha successivamente archiviato (focalizzando invece l’attenzione sulla posizione di un altro soggetto di Fuscaldo che, secondo gli inquirenti, avrebbe fornito una falsa testimonianza al fine di danneggiare l’ambientalista per favorire il maresciallo).

Su questa serie di anomalie sono state prodotte addirittura tre interrogazioni parlamentari, proposte – al tempo in cui l’asse di governo nazionale non era stato ancora neanche ipotizzato – dagli allora esponenti di Lega e MoVimento 5 Stelle.

A rendere ancor più disagevole la posizione del politico ambientalista fuscaldese, vi sarebbe poi la questione legata alle presunte minacce (Ferrante avrebbe detto a Di Domenico: «Te la farò pagare…» e ancora: «Ti faccio vedere io, dove cazzo devi andare…») e agli “Op/85” redatti dai Carabinieri, «i quali – si legge nell’interrogazione pentastellata del 18 ottobre 2017 – avrebbero annotato ogni persona con cui lo stesso (Davide Di Domenico, ndr) avrebbe avuto contatti durante la giornata (comprese la moglie e la cognata), controlli che sarebbero stati inseriti nella banca dati del CED (centro elaborazione dati), a parere degli interroganti senza alcun giustificato motivo di tutela dell’ordine, della sicurezza pubblica e di prevenzione e repressione della criminalità, ma con una finalità evidentemente ritorsiva». “Segnalazioni” cui non sarebbero stati esenti neanche poliziotti, giornalisti, carabinieri e professionisti in genere. Tutti adesso esposti all’eventuale rischio “automatico” di controlli approfonditi in ogni circostanza.

Allo stato attuale il maresciallo Michele Ferrante risulta “trasferito” dalla Compagnia di Paola al Comando Provinciale di Cosenza, mentre per quanto concerne il processo a suo carico bisognerà attendere il 9 gennaio del prossimo anno, quando nell’aula di giustizia del Tribunale di Paola – dove sarà difeso dagli avvocati Giuseppe Bruno e Armando Sabato – avrà modo di replicare alle accuse mosse dal Procuratore Capo, Pierpaolo Bruni, dalla sua sostituta  e dallo stesso Davide Di Domenico (la cui testimonianza sarà assistita, nella circostanza, dall’avvocato Antonio Ingrosso di Cosenza).

Da Iacchite - 1 novembre 2018

Fonte: Marsili Notizie (http://www.marsilinotizie.it) di Francesco Frangella

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Il carcere di Paola ha 182 posti.

Ospita però 221 detenuti.

Ben 119 sono stranieri.

In maggior parte albanesi.

La Casa Circondariale di Paola è tra gli Istituti della Calabria con la più alta percentuale di stranieri,

con tutte le difficoltà che ne derivano per la gestione penitenziaria di tali persone, spesso prive di alcun collegamento con il territorio.

Ci sono 17 camere inagibili (4 alla I sezione, 4 alla III sezione, 3 alla IV sezione, 5 alla V sezione e 1 alla sezione infermeria).

Numerose camere detentive sono chiuse per inagibilità dovuta a copiose infiltrazioni meteoriche.

Inoltre, per gli stessi motivi, altre 2 camere presso la IV sezione, a breve, saranno dichiarate inagibili.

E’stata registrata altresì la copiosa infiltrazione di acqua piovana nelle aule scolastiche e in altri locali (teatro, sorveglianza generale, corridoio centrale accesso sezioni).

Tutte le problematiche, pur essendo state segnalate ai superiori uffici, non sono state risolte.

Sono state riscontrate alcune altre criticità tra cui l’isolamento precauzionale di un detenuto, allocato da circa 7/8 mesi all’interno del cosiddetto “repartino isolamento” avendo lo stesso dichiarato al personale di Polizia Penitenziaria di temere per la propria incolumità personale e di volere essere trasferito in altro Istituto.

La Direzione dell’Istituto avrebbe chiesto più volte l’allontanamento del predetto, ma ogni richiesta pare sia stata respinta dai superiori uffici. Inoltre, il detenuto, pare abbia posto in essere anche atti autolesionistici e per tale ragione sia stato sottoposto a “sorveglianza a vista”.

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Nel 1736 la Camera Marchesale decise di imporre una nuova gabella sulla macina dei grani, precisamente 3 carlini per tomolo di grano e 2 carlini per tomolo di grano d’india.

Tale tabella costituiva il cespite più gravoso, pari quasi al doppio della tassa cives che colpiva direttamente i fuochi.

Al tempo c’erano 7 gabelle che davano poco più di un sesto della gabella della macina.

La introduzione della gabella avvenne con il consenso degli amministratori delle università.

Contro questa gabella si mosse la protesta della popolazione.

Inizialmente si tentò di chiedere l’intervento regio per ridurre il peso fiscale.

Poi la situazione sfuggì di mano ed il 5 novembre 1736 a Paola si verificò una sommossa.

La città era governata dagli Spinelli, una famiglia al culmine della potenza politica, i quali erano anche principi di Cariati e di Scalea, e Giuseppe, fratello del Marchese di Fuscaldo, era cardinale arcivescovo di Napoli nel 1735.

La popolazione, colpita dalla pressione fiscale, si riversò sulle strade guidata da Francesco e Nicola Barone e dal chierico Mazzei.

La sommossa durò due mesi, durante i quali furono incendiate le case dei notabili e dei gabellieri feudali.

Tanto potenti da spingere Bernardo Tanucci, ministro di Carlo III, a parlare di Spinelleria, specialmente quando nel 1746 l'arcivescovo chiese la restaurazione del Santo Uffizio ed ottenne dal re Carlo un deciso rifiuto.

Il feudatario Tommaso Francesco Spinelli su costretto ad asserragliarsi nel castello.

Poi , il 6 gennaio 1737, cessò, grazie all'intervento del clero locale.

I capi della sommossa si riunirono nel collegio dei Gesuiti e qui il padre lettore catalano arringò la folla esortandolo alla pace.

I capi della rivolta furono tutti arrestati.

La repressione della rivolta di Paola fu violenta ed il capo degli insorti, Nicola Barone, fu tradotto a Cosenza e condannato a morte.

Gli altri furono condannati a pene più lievi ma vennero strapazzati e “de fatto martoriati” dal marchese Spinelli

La gabella sulla macina dei grani.

Il termine “Gabella” (dall’arabo dialettale gabēla, variante di qabāla – lett. “versamento” -, passando per il latino medievale gabulum) indicava, nel diritto tributario all’origine in Francia e in Italia, le imposte indirette sugli scambi e sui consumi di merci. Erano riscosse da esattori particolarmente invisi alla popolazione, i gabellieri, figura a metà fra l’ufficiale pubblico e il libero concessionario in proprio.

Le gabelle sui generi alimentari di prima necessità (grano ecc.) erano spesso applicate in maniera onerosa ed abusiva.

Tristemente famosa era la gabella sul sale, istituita in Francia nel XIV secolo. La gabella emigrationis era la tassa corrisposta da un emigrante per il capitale che portava con sé. La gabella hereditatis era la tassa dovuta per mandare all’estero un dono o un’eredità.

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