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Tre piloti brasiliani, Frank Thoma Brown, Marcelo Prieto e Donizete Baldessar Lemos hanno stabilito il nuovo record mondiale di distanza di volo in parapendio, ben 514 chilometri.

 

Il precedente, 503 chilometri toccati in Sud Africa da Nevil Hulett, resisteva dal 2008.

Teatro dell'impresa il nord est del Brasile, esattamente dove si trova la punta più orientale delle Americhe, con le città di Natal e Fortaleza affacciate sull'Atlantico.

Parapendio e deltaplani per reggersi in aria sfruttano le masse d'aria ascensionali scaturite dall'irraggiamento solare del territorio e le correnti dinamiche provocate dall'azione del vento sui rilievi montani.

Seguendo queste leggi inviolabili del volo libero, cioè senza motore, i tre piloti sono decollati uno dopo l'altro alle 7 e 45 da Tacima, un paesino nell'entroterra dello stato di Paraìba, circa 100 km da Natal, per dirigersi verso nord ovest. Hanno toccato terra nei pressi di Lagoa do Mato nello stato del Cearà dopo undici ore di volo.

 

Il terzetto era equipaggiato con ali perforanti che sfiorano i 70 km/h di velocità massima, sellette integrali, GPS ed altra strumentazione. Due auto li seguivano da terra ed un elicottero era in allerta nel caso di atterraggi in zone non raggiunte da strade. Infatti, nel volo libero può accadere che il pilota non trovi condizioni favorevoli per guadagnare quota e, con essa, proseguire il volo. In tal caso sarà obbligato ad atterrare dove si trova, suo malgrado.

Se il record mondiale maschile di distanza in parapendio passa ai piloti verde-oro, resiste in azzurro quello femminile, 377 chilometri, stabilito dalla friulana Nicole Fedele nel 2013, ancora una volta in Brasile, salvo che riesca a migliorarlo in questi giorni, visto che è tornata con questo intento nel paese sud americano, a Quixadà.

Nel frattempo, anche loro con il proposito di battere il nuovo record, il 30 ottobre altri sette italiani attraverseranno l'oceano. L'avventura passa sotto il nome di Project +500 ed è nata dalla mente di Moreno Palmesan, pilota trentino che ha coinvolto i compagni Luigi Grandi, Giulio Michelin, Paolo Grigoletto di Vicenza, Lorenzo Zamprogno e Claudio Mancino di Treviso e Eric Galas anch'egli di Trento. Anche loro hanno scelto Tacima come base di partenza per poi seguire i rilievi verso nord ovest. Oltre ad attrezzatura adeguata, per il successo sono fondamentali preparazione fisica e mentale, alimentazione appropriata, i liquidi in particolare, ampiamente consumati durante le lunghe permanenze in volo, ed infine il favore della meteo.

Gustavo Vitali - Ufficio Stampa FIVL

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Si chiamava John Kennedy Gurjão dos Santos.

Viaggiava sul volo EI485 Aer Lingus partito da Lisbona e diretto a Dublino.

Ad un certo punto John Kennedy ha letteralmente morso il passeggero vicino a lui.

L’irrazionale comportamento ha posto in allarme il comandante anche perché nell’ Airbus A320-200 viaggiavano 168 passeggeri e sei membri dell'equipaggio.

Il comandante allora ha chiesto se sull’aereo di fosse un medico e si sono presentati un medico ed un infermiere che hanno tentato di aiutare il giovane Gurjão dos Santos che non hanno potuto far nulla

John Kennedy Gurjão dos Santos come ha riferito John Leonard, uno dei passeggeri che hanno assistito a quei drammatici momenti, era sul pavimento e tremava violentemente emettendo suoni gutturali che venivano dal suo profondo

Appena giunti a Dublino il giovane è stato sottoposto ad autopsia ed è stato scoperto che nel suo stomaco portava 80 capsule di cocaina del valore di 64.000 $ .

Evidentemente una o più delle capsule si è rotta riversando nel corpo di John Kennedy il loro intero contenuto e causando una inarrestabile emorragia interna che lo ha ucciso.

A fianco a lui viaggiava una donna di origine portoghese che nel bagaglio aveva anfetamine, donna che secondo il quotidiano britannico Metro è stata arrestata per traffico di droga.

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Prima o dopo Gigi manderà in stampa la sua miscellanea di racconti e riflessioni, ne sono certo. E non sono il solo. E penso che avrà per titolo “L’uomo che ascoltava il mondo…”.

E sarà un libro da conservare gelosamente non fosse altro che per sapere di un amanteano straordinario e troppo poco conosciuto. Nell’attesa eccovi un altro suo intenso racconto.

 

“ Mi sono trovato in un contesto dove avevo una gran voglia di evadere. Di sognare e di scrivere questi sogni.

Mia madre era una straordinaria narratrice. Quando ero piccolo, insieme ai miei due fratelli e nonna Domenica, nelle fredde serate d’inverno ce ne stavamo tutti intorno ad un solo braciere mentre mamma leggeva da GrandHotel, Via col vento a puntate.

A volte, non leggeva. Inventava. I suoi racconti erano sempre immaginifici, e mettevano in scena una foresta.

Pur vivendo a due passi dal Mare di Ulisse, il richiamo di quella foresta risuonava emozionante, misterioso e attraente e tutte le volte che lo udivo mi sentivo costretto a rinnegare la mia natura marinara.


Chiudevo gli occhi cullato dalla sua voce e con le spalle al fuoco e agli alberi che mi circondavano, mi addentravo nella foresta, sempre più avanti, senza sapere dove andavo né perché; né mi chiedevo dove o perché il richiamo risuonasse superbamente nel cuore della foresta.

A vent’anni non avevo più il bisogno di chiudere gli occhi, quando l’aurora boreale divampava fredda nel cielo o le stelle palpitavano in una gelida danza, mentre la terra intirizzita e ghiacciata giaceva sotto la bianca neve.

In lontananza, un canto di mousse avrebbe modulato in chiave minore, con gemiti prolungati e singhiozzi interrotti. sembrava una supplica. Raccontava la dura fatica dell’esistenza.

Era un canto antico, antico come questa parte del mondo prima che un uomo occidentale vi mettesse piede.

In quei giorni era tornato da mari sconosciuti un italiano che viveva a Bristol con la moglie veneziana e i suoi tre figli. Gli inglesi gli stavano dietro come invasati e lo chiamavano Grande Ammiraglio, porgendogli molto onore perché aveva scoperto delle nuove terre. L’inventore di queste storie diceva di aver piantato su quelle terre una gran croce e la bandiera inglese assieme al gonfalone di San Marco, perché lui era veneziano. Ed era per questi motivi che la città di Bristol era diventata improvvisamente molto rinomata e stimata in Inghilterra.

Il nome del genovese-veneziano, che indossava sempre sgargianti abiti di seta, era Giovanni Caboto.

 

Le terre che aveva scoperto appartenevano alla nazione che poi divenne il Canada.

Oggi è mese che sono tornato a Edmonton nell’Ovest canadese.

E’ una bellissima giornata di sole, non si direbbe che sia metà ottobre.

Guardo fuori dalla finestra della mia stanza e vedo uno scoiattolo che sta cercando da mangiare nei rami del mio abete rosso.

Deve essersi ricordato delle noccioline che ho messo ai piedi dell’albero qualche giorno fa.

Mentre osservo lo scoiattolo vedo passare la gente, i miei vicini. Come se l'intero mappamondo mi stesse scorrendo davanti.

Un irlandese, un indiano, una coppia di etiopi, un cinese e un sik. Sono in Canada luogo di culture contrastanti e allo stesso tempo omogenee.

Cavalco gli orizzonti/ lasciando al fato la scelta del mio riposo notturno. Su una montagna di ossa/che una volta correvano sulle praterie/ignari di ciò che stavano per pagare/ Bisonti, cervi ,indiano morti, pionieri e case in fiamme/ lasciate indietro nella polvere della depressione. Ho vissuto anch’io in questa terra. Ne ho conosciuto la bellezza delle notti con la bianca neve brillare nella luce lunare mentre da essa fuoriusciva una strana e inquietante struttura:un Inukshuk .

 

Anzi, come scoprii qualche anno più tardi, si trattava di un Inunwack (nella lingua Inuit significa simile ad un essere umano) che è un ometto ovvero una costruzione in pietra usata come punto di riferimento dagli Inuit, Inupiat, Kalaallit, Yupik e da altri popoli della zona artica dell'America settentrionale.

Mentre, lo Inukshuk, il significato è "sei sulla strada giusta" oppure "qualcuno è stato qui". Gli Inuit li costruiscono anche come aiuto direzionale, per segnalare un buon punto di pesca o di caccia, oppure come segnali che si trovano nelle autostrade moderne.. Spesso eretti singolarmente, sono stati ritrovati anche ispirati a specifici temi, come un codice costituito da Inukshuk simili tra di loro che anche a grandi distanze ripetono una sequenza, come una carta stellare.

Queste forme rocciose sono fra i più antichi simboli dell'umanità che si conoscano, sia nel Circolo Polare Artico che in tutto il mondo. Spesso per il viaggiatore, la vista di un Inukshuk è confortante e dà un senso di familiarità in un paesaggio piatto, tutto bianco e senza punti di riferimento.

 

Ogni Inukshuk è unico, con pietre tutte diverse fra loro. Ogni pietra può significare qualcosa per chi ha intrapreso un viaggio in quei posti desolati, e porta impressi i segni del viaggio, ad esempio: quanti viaggiatori erano? c'erano donne? bambini? era un posto dove i caribù sostano.

Mi addormentai ed eccomi di nuovo davanti ad un Inunwack. Ogni braccio,gamba o testa dell’Inunwak significa qualcosa. La direzione da intraprendere, o il passaggio in una valle. Può anche indicare la provenienza di un viaggiatore e dove sarà diretto.

Era più rassicurante del monolite di “Odissea nello Spazio” di Stanley Kubrik. Mi avvicinai alla sua figura umana e diedi un occhiata attraverso la “finestra” che aveva al posto del ventre. Mi apparve il volto di mia figlia Lorenza che mi svegliava con un sorriso.

Edmonton oct.09 2015 Gigino A Pellegrini & G el Tarik.

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