Amici carissimi, sapete cos’è la “fuitina”?
E’ una fuga d’amore che veniva usata tanti anni fa specialmente in Sicilia.
Ma anche un rapimento con stupro, che poi si trasformava in matrimonio riparatore.
Usanza molto diffusa negli anni 50 e 60 del secolo scorso.
I due fidanzatini fuggono insieme, sono d’accordo, quando la loro relazione è osteggiata dalle famiglie dei due ragazzi.
Poi, però, per rimediare alla vergogna, le famiglie dei due ragazzi impongono il matrimonio.
Ma qui stiamo parlando di due persone adulte.
L’Huffington Post e il TGCOM24 dell’altro giorno ci hanno parlato di una “fuitina” di uno scolaretto di appena 9 anni.
Avete letto bene, 9 anni.
Vi scandalizza questa notizia? No. Ci sono altre cose di cui scandalizzarsi.
Una “fuitina” d’amore a 9 anni è impossibile. Il telegiornale e il giornale hanno esagerato.
Lo hanno forse fatto per attirare l’attenzione dei telespettatori e dei lettori.
Ma quale fuga d’amore!
La fidanzatina del ragazzo che poi è una compagna di classe era a letto ammalata con l’influenza. Allora il ragazzo non vedendola a scuola non ci ha pensato due volte ed è andato a trovarla a casa dove abita in un altro paese diverso dal suo.
Si è fatto accompagnare dall’autista dello scuolabus che prendeva ogni giorno per tornare a casa.
Il ragazzo non ha avvisato i genitori e per questo si sono molto preoccupati non vedendolo tornare a casa.
Ma per fortuna tutto è finito bene.
Una signora lo ha visto, lo ha riconosciuto e subito ha avvisato i genitori e la sua scuola di appartenenza.
I genitori del ragazzo sono subito accorsi ma non l’hanno rimproverato.
Lo hanno lasciato che passasse tutto il pomeriggio in compagnia della sua amichetta del cuore costretta a letto colpita dall’influenza.
Bella favola d’amore, ma parlare di “fuitina” d’amore a 9 anni la notizia data mi è parsa esagerata.
Voi cosa ne pensate?
La scuola di una volta, quella che io ho frequentato per la prima volta sul finire degli anni trenta, aveva questo gravissimo compito: insegnare agli scolari a scrivere, a leggere e a far di conto.
Si acquisivano, anche se alla buona i primi rudimentali strumenti del sapere e le prime competenze strumentali indispensabili per la vita di allora.
Bisogna rendere omaggio a quella scuola perché da essa sono uscite diverse generazioni di alunni che poi hanno fatto grande l'Italia.
La scuola elementare era considerata scuola dell’obbligo per i ragazzi dai sei agli undici anni. L’obbligatorietà di frequentare la scuola media risale soltanto all’anno 1962.
Non tutti i comuni d’Italia possedevano edifici scolastici e locali idonei per le scuole.
Spesso erano locali improvvisati, privi di servizi igienici, di luce naturale e di luce artificiale.
Nelle campagne, poi, la scuola era ubicata in sperduti casolari diroccati, lontani ed inospitali. Il più delle volte erano stalle con assoluta povertà di sussidi didattici e di suppellettili: un tavolo sgangherato, una lavagna, quattro banchi di legno e una carta geografica rattoppata.
Anche l’armamentario degli scolari era povero: un libro di lettura, un sillabario, una matita, una gomma, un astuccio col pennino, un quaderno a righe ed un altro a quadretti, un calamaio.
Il tutto racchiuso in una cartella di stoffa o di legno per i più poveri, una cartella di carta pesta di colore giallo per i più ricchi.
Ah, il calamaio! L’inchiostro sempre fuoriusciva ed avevamo sempre le mani impiastricciate di nero e la camicia ed i pantaloni imbrattati.
Costringevamo le nostre mamme a lavori straordinari, anche perché col bucato di una volta l’inchiostro difficilmente andava via dai vestiti.
Nostalgia, rimpianto di quei tempi lontani? Tantissimo. Non mi vergogno davvero nel confermarlo. Non credo che qualcuno voglia farmi sentire in colpa se ricordo ancora con tanto affetto la mia aula scolastica, la mia maestra di prima elementare che con tanta pazienza e bontà guidava la manina ancora incerta alla conquista gioiosa delle lettere dell’alfabeto.
Ricordo con affetto e nostalgia i cari, i vecchi compagni di classe. Impossibile non pensare a loro. Se chiudo gli occhi li rivedo uno per uno.
E poi lei, la buona, la cara, la dotta, l’impareggiabile maestra Adele Politano, seduta dietro il tavolo, sotto un piccolo crocifisso appeso al muro tra i ritratti del Re Vittorio Emanuele III e di Benito Mussolini, il nostro Duce. Ricordo il suo sguardo materno, il suo dolce sorriso.
Sul tavolo c’era l’immancabile registro di classe dove la maestra registrava le assenze, le note e le osservazioni sistematiche, una guida didattica che consultava spesso, una penna, un calamaio, un foglio di carta assorbente ed infine una bacchetta di legno ben levigata larga circa tre dita e lunga mezzo metro.
Ahi, ahi, la bacchetta di infelice memoria! Adesso la bacchetta non si usa più nelle nostre scuole, i tempi sono cambiati ed i metodi di correzione sono completamente diversi da quelli di una volta. Non avevi imparato a memoria i verbi? Cinque bacchettate. Non avevi imparato la tavola pitagorica? Dieci bacchettate. E se nella deprecabile ipotesi rispondevi alla domanda del maestro che il poliedro era un asinello allora le bacchettate erano parecchie. E che male facevano, specialmente d’inverno, quando le mani erano completamente gelate dal freddo. Non ti potevi neppure lamentare, altrimenti la pena veniva raddoppiata. E se poi ti lamentavi a casa col babbo e con la mamma ti rispondevano:- Ha fatto benissimo. Se incontrerò la maestra la ringrazierò e le dirò di fare peggio-
E giù quattro scappellotti. Oggi, come minimo, il maestro andrebbe diritto in tribunale, processato ed allontanato dalla scuola.
La bacchetta aveva il suo posto d’onore sul tavolo della maestra, a destra del registro e guai a chi osava toccarla. Veniva guardata con disprezzo. Scompariva, immancabilmente, quando in classe arrivava qualche supplente giovane. Come d’incanto ricompariva quando ritornava la vecchia maestra. Certe volte erano gli alunni più bravi, i secchioni, quelli che sedevano ai primi banchi, che si incaricavano di portarne una nuova. Se la facevano preparare dal falegname del luogo, il quale non osava minimamente dire di no alla richiesta del “mastro e scola”. Il maestro, una volta, era rispettato, amato e preso in grande considerazione, specialmente nei piccoli paesi. Il parroco, il medico, il farmacista, il maestro di scuola erano gli unici che sapevano leggere e scrivere e quindi erano i soli capaci di leggere e scrivere le lettere dei congiunti emigrati in terre lontane.
Altri tempi, altra scuola, altri ragazzi, altri metodi! Ora la bacchetta a scuola non si usa più. E se qualche volta capita a qualcuno di visitare una scuola e trovare una bacchetta sulla cattedra, non si deve allarmare. Quella bacchetta serve tutt’al più agli alunni per individuare sulla carta geografica le regioni italiane, i fiumi, i laghi, i monti ed i mari della nostra penisola. E se a qualche viandante distratto e occasionale, passando sotto le finestre di una scuola, capita di sentire tra le voci dei ragazzi un bel colpo sulla cattedra, non si deve minimamente preoccupare. Non è scoppiata nessuna rivoluzione in classe. E’ stata la bacchetta.
Ah, la bacchetta! Che fine ingloriosa ha fatto! Povera, infelice, odiata bacchetta!
Così scrisse il compianto Ispettore Scolastico Dott. Mario Valentini in un suo articolo tanti anni fa nel ricordare la bacchetta:-
Da simbolo dell’autorità magistrale e strumento di pedagogica correzione a mazza di tamburo -.
VOCA VOCA SCIA ANNAMU A L’AMANTIA
C’era un tempo in cui Amantea era così nota da diventare oggetto delle filastrocche siciliane per i bambini.
Eccovi, così, una filastrocca siciliana che si recitava per calmare il bambino quando era un po’ agitato, o comunque non prendeva sonno, facendolo dondolare,
vagamente simulando i movimenti del vogare e dello sciare. e scuotendolo, infine, vivacemente scandendo “cicchitnnera, cicchitnnera”.
Nei primi melodiosi versi, ecco indicato un “luogo di delizie”, l’Amantia (sicuramente da identificare con la nostra Amantea), che ospita creature di fiaba.
La filastrocca, riportata dal testo di Antonino Sarica “La Corona del re” filastrocche messinesi, recitava :
Voca voca scia,
annamu a l’Amantia,
a l’Amantia c’è i belli donni
chi jocunu a li culonni,
li culonni su di sita
e Nicola si marita,
si marita a menz’o ghianu
cu la figghia du capitanu,
u capitanu potta a bannera,
cicchitnnera, cicchitnnera.
La traduzione: Voga voga scia, / andiamo all’amantia, // all’amantia stan le belle donne / che giocano alle colonne, // le colonne son di seta / e nicola si marita, // si marita in mezzo al piano / con la figlia del capitano, // il capitano ha la bandiera, / cicchitnnera, cicchitnnera.
Giuseppe Marchese