“La Fiat del Sud”. Così era chiamato l’Istituto papa Giovanni XXIII di Serra d’Aiello nel periodo d’oro, quello durante il quale occupava diverse centinaia di persone e dava ospitalità a diverse centinaia di pazienti.
L’IPG fu il figlio del cuore di Dog Giulio Sesti Osseo, il prete di campagna di Serra d’Aiello, che negli anni cinquanta diede inizio a una casa famiglia composta da persone con varie difficoltà e alcuni volonterosi aiutanti.
In seguito ad alcune leggi riguardanti la disabilità (L. 118/71) e la chiusura dei manicomi (L. 180/78), don Giulio ampliò gli edifici e aumentò il numero dei ricoverati accogliendo coloro che venivano tolti dai manicomi, ma non rispettò gli standard strutturali, né quelli riguardanti il personale.
L’Istituto s’ingrandì fino al 1995, quando il numero dei dipendenti divenne così esuberante che le finanze dell’istituto non furono più equilibrate.
Nacquero i primi problemi di mancato pagamento degli stipendi anche perché la regione, sin da allora, non era tempestiva nei pagamenti
Poi don Giulio nato povero, vissuto povero e morto povero, venne cacciato dall’IPG e morì nel silenzio in quel di Belmonte Calabro dove aveva ricominciato ad assistere i più infelici
Il suo istituto venne sgomberato il 17 marzo 2009 da un esercito di polizia, Vigili del Fuoco, sanitari e parasanitari che lo spogliarono di quella umanità dolente , ben 360 ospiti, e lasciarono l’altra umanità dolente che perse il lavoro e che oggi a distanza di oltre 5 anni è ancora dolente e senza lavoro. Più di 500 persone le quali ancora oggi dicono “Chiediamo un sussidio per vivere". Una massa di persone professionalmente qualificate che vogliono “ lavorare e poter guardare con fiducia al futuro".
E’ rimasta la grande struttura , un monumento all’impresa sociale , al lavoro per mille e più persone che ora sono in giro a lamentare la loro condizione di inoccupati.
E sono lì davanti all’istituto in questi giorni ad assistere alla spoliazione di quella che era la Fiat del sud
Tutto viene buttato dalle finestre a cominciare dai letti e da quanto può essere riutilizzato o semplicemente portato in fonderia.
Tutti i comodini, i lavelli, le cucine in acciaio e fino a che “morte non ci separi”, cioè che non resti niente.
Grandi camion si inerpicano sulla malmessa strada provinciale che resiste per miracolo alle diverse frane che la incidono fino a giungere nel grande cortile dell’Istituto e prelevano ogni cosa.
E nessuno sa dove andrà questa roba.
Nessun poliziotto a controllare la legittimità di queste operazioni che uccidono la speranza che dopo Don Giulio potesse esserci qualcuno, magari una cooperativa di ex dipendenti, ad usare un bene che ha comunque servito un territorio ed una umanità dai grandi bisogni di assistenza. Di ieri e di oggi.
Giuseppe Marchese