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Lettera aperta all’amministrazione comunale

Quello che non vediamo direttamente molto spesso ce lo fanno notare, scrivendoci ( talora anche con le relative foto) o telefonandoci o semplicemente incontrandoci e riferendoci.

Da qui il nostro “mestiere”, da molti apprezzato per la informazione che offriamo “gratis et amore dei”, e che ci impone di interessarci di quanto avviene nella nostra comunità, scrivendone perché ne resti traccia, se non memoria

Talvolta ci vediamo costretti a segnalare “refusi”, alcuni inverosimili.

Non pretendiamo certo di essere letti( figurarsi di essere capiti!) , tantomeno dai responsabili di questi refusi, ed ancora meno di avere dagli stessi le risposte, per certi versi, dovute.

Ma vivaddio, se in qualche modo sprechiamo il nostro tempo per aiutare il nostro paese ad apparire ( certamente non ad essere!) migliore , una risposta ce la attenderemmo!

E’ il caso della targa marmorea apposta vicino alle “Case sciullate” per la quale avevamo segnalato alcuni errori

Bene alcuni di essi sono stati corretti ma non tutti.

Ecco la vecchia rotta ma scritta in italiano

Ed ecco la prima contenente l'errore di italiano

 

Ed ecco infine quella appena collocata e contenente ancora l'errore( dell'avvenimento in luogo di dall'avvenimento!)

In verità vorremmo evitare che se qualche turista ( hai visto mai che ne arrivi qualcuno, prima o poi?) leggendola pensasse che gli amanteani siano tutti ignoranti?

Da qui la necessaria domanda.

Visto che l’amministrazione comunale ( o chi per essa) non intende evitare o correggere gli errori, a chi dobbiamo scrivere perché la targa sia scritta in italiano, come è d’obbligo?

Al sig Prefetto?

Al Ministro della Pubblica istruzione?

In caso di mancata risposta ci vedremo costretti a farlo!

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Da ragazzino ho sempre assistito alla processione del venerdì prima di Pasqua.

I ricordi riaffiorano e anche alcune domande che mi ponevo.

Non ho mai capito, per esempio, l’assenza di Giuseppe al funerale del figlio Gesù.

Eppure un figlio rappresentava e rappresenta la carne dei genitori, il prolungamento della loro carne e in qualche modo rappresentava e rappresenta il prolungamento della loro vita.

La loro vita e loro carne allora come adesso è lì, incarnata al di fuori di loro, in quel figlio che però è senza vita.

La madre, Maria, affranta, sono certo, sarà sempre lì.

Dietro alla salma del proprio figlio.

Col passare degli anni mi sono reso conto che per una madre perdere il proprio figlio deve essere la tragedia più grande che possa colpire la vita di una donna che lo ha partorito.

Un dolore dal quale non ci si riprende mai, una ferita sempre aperta.

Ho visto la statua di quella madre piangere per quel figlio e per ciò che avrebbe potuto vivere e per il suo futuro che non ci sarà.

Domattina, a distanza di anni, mi ritroverò sullo stesso muretto delle Scuole Elementari del mio paese natio mentre da lontano arriveranno quelle voci che annunceranno l’arrivo delle immutate statue portate a spalla e che rappresentano i protagonisti del sacrificio di un giovane di 33 anni, dei suoi aguzzini e dell’ inconsolabile madre dal volto coperto dal velo accompagnata dalle voci e pianti di tantissime donne.

Lei apparirà, come sempre,in quel suo vestito nero dietro al corpo senza vita di quel figlio.

E, come allora, la percezione del cordoglio della collettività non sarà la stessa per il padre “assente” e per la madre.

L’attenzione tenderà a concentrarsi sullo straziante dolore della madre e sul corpo di quel figlio.

Gigino A. Pellegrini & G el Tarik

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“La Filosofia contempla la Ragione, onde viene la scienza del vero: la Filologia osserva l'Autorità dell'Umano Arbitrio, onde viene la Coscienza del certo.” Giambattista Vico.
Non sono mai stato un artista. Sono un mestierante interpretativo, se così si può dire, che ha “anche” a che fare con l’arte, che interpreta con l’intuizione e un po’ di sensibilità. Scrivo sulle parole e le cose degli altri. Come sono bravo io a interpretare quello che altri hanno già detto! Sono bravo, ma il Giardino dei ciliegi, l’ha scritto nel 1903 A. Pavlovic Cechov, non io. Io non saprò mai scrivere neanche una riga del Giardino. Io so però leggerlo. Ed eccomi qui a riflettere e tentare di scrivere su qualcosa di umano: il libero arbitrio. “Puntigliosamente”, come direbbe una persona a me molto cara, vado alla ricerca di un “nuovo” modo di vedere il libero arbitrio che potrebbe avere il vantaggio di farci sentire totalmente liberi di agire e liberi dunque da tutta una serie di vincoli psicologici e sociali attuali, bagaglio del passato. Il libero arbitrio non può essere più considerato solo come una sensazione mentale di libera scelta. E neppure visto solamente come un termine indispensabile nell’ambito del discorso politico e giuridico. Neanche confinato nell’essere un termine colloquiale del discorso comune. Il libero arbitrio che sia, senza ombra di dubbio, un fatto di natura scientificamente fondato, una realtà psicologica e biologica. Il suo essere presente nell’essere umano si è andato sempre più affermando nella nostra storia evolutiva, in tutte le specie intelligenti producendo un ampio vantaggio nella competizione per la sopravvivenza. Noi apparteniamo alla specie che compete al suo interno per la conquista di qualsiasi cosa incluso la conquista del proprio partner e questo perché “…. Abbiamo tutti dentro un mondo di cose: ciascuno un suo mondo di cose! E come possiamo intenderci, signore, se nelle parole ch'io dico metto il senso e il valore delle cose come sono dentro di me; mentre chi le ascolta, inevitabilmente le assume col senso e col valore che hanno per sé, del mondo com'egli l'ha dentro? Crediamo di intenderci; non ci intendiamo mai!” Cosi scriveva Luigi Pirandello in una delle sue opere teatrali.
Il “libero arbitrio” come atto non conforme alle regole sociali che portarono Marcel Duchamp a lottare tutta la vita per sottrarsi al lavoro, rifiutando – esattamente all'opposto di Pablo Picasso – di ridurre la sua vita alla produzione di opere da immettere nel mercato. Rifiutando di essere un lavoratore dell'arte, un produttore d'immagini. E, ancora più radicalmente, rifiutando di identificarsi con la figura dell'artista, rifiutando anzi qualsiasi identificazione. A chi gli chiedeva quale fosse la sua professione, Duchamp rispondeva: “Perché volete a tutti i costi classificare la gente? Che cosa sono? Un uomo, semplicemente un respiratore”. L'atto arbitrario, in tal senso, è la costante creativa contrapposta all' appiattimento del divenire umano.

Gigino Adriano Pellegrini & G el Tarik

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