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I sogni infranti del topolino Michele

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sogniAdesso, bambini, un po' di attenzione e un po' di silenzio, perché oggi vi racconterò una bella favoletta. C'era una volta….. Signor maestro ogni volta che ci leggete una favoletta incominciate sempre col dire: C'era una volta", ciò vuol dire che adesso non c'è più? C'era una volta un Re? Un Principe? Una fata? Un pezzo di legno?

No bambini, nella favoletta che vi leggerò non c'era e non c'è un Re, un Principe, una fata e un pezzo di legno. C'era una volta un topolino di nome Michele che per sfuggire alla fame decise un bel giorno di andare a lavorare all'estero. Qui da noi non riusciva a trovare lavoro, quindi, spinto dalla fame e dal bisogno, emigrò in una terra lontana. Emigrò in America.

E così una mattina di gennaio di tantissimi anni fa prese il treno per Napoli dalla stazione ferroviaria di Amantea e poi si imbarcò sulla nave Saturnia e sbarcò dopo un lungo viaggio nel porto di New York.

Era la seconda volta che prendeva il treno. La prima volta fu quando con la famiglia si recò in pellegrinaggio a Paola a pregare presso il Santuario di San Francesco. Si recarono al Santuario perché la madre doveva sciogliere un voto. Ora, però, era solo e il viaggio era molto lungo e faticoso e per giunta in un vagone di terza classe con i sedili molto scomodi e di legno. Allora nei vagoni non c'era il riscaldamento e poi il treno era un "Accelerato", si fermava in ogni stazione ferroviaria sia piccola che grande. Per arrivare a Napoli impiegò tantissime ore e quando Michele arrivò a Napoli era notte fonda. Era stanco, molto stanco e aveva una fame da lupi. Non aveva nulla da mangiare. Trovò presso la Stazione Centrale qualche briciola di pane e un pezzetto di formaggio nei cassonetti della spazzatura.. Si dissetò alla fontanella del binario numero 10 e poi si appisolò su una panchina di cemento. Aveva una valigetta legata con lo spago dove la mamma gli aveva messo qualche camicetta ed un paio di pantaloni del fratello maggiore rivoltati, come si usava allora. Non abbandonò mai la valigetta, la teneva sempre vicino a sé, anche perché la mamma gli aveva detto che a Napoli c'erano i mariuoli, quindi doveva stare sempre all'erta. Non solo non si doveva distrarre un solo istante, ma non si doveva fare imbrogliare dagli scugnizzi napoletani che in quel tempo si aggiravano in tanti presso la Stazione ferroviaria Garibaldi.

Prima di dire definitivamente addio al suo piccolo paese volle visitare il luogo dove era nato, i campi dove aveva lavorato, gli amici con cui aveva giocato, il cimitero dove era sepolto il padre, la scuola dove per alcuni anni aveva frequentato, la chiesa dove era stato battezzato.

Addio strade, vie, vicoli, piazze, monti, amici! Oggi partirò e andrò lontano per fare fortuna, ma vi porterò sempre nel cuore. Forse il topolino Michele si ricordava del passo che il suo maestro di quinta elementare gli aveva letto alcuni anni fa. Si ricordava dei "Promessi Sposi" di Alessandro Manzoni e dell'addio di Renzo e Lucia dalla loro terra natia per sfuggir al ricatto ed alle voglie di un certo Don Rodrigo, un vero balordo. - Quanto è tristo il passo di chi, cresciuto tra voi, se ne allontana! -

Michele aveva tanta voglia in corpo di vedere e conoscere l'America, gliene avevano parlato bene tutti, anche il suo vecchio Maestro gli aveva sempre detto che in America si stava bene, che c'era lavoro per tutti. Avrebbe lasciato alle spalle una vita fatta di stenti, di sacrifici, di privazioni, di tribolazioni.

E così, con questa gran voglia che aveva in corpo, partì per la lontana America, verso l'ignoto, verso un avvenire che pensava migliore, per sfuggire ad una realtà dura ed opprimente. Come tutti gli emigranti intravedeva lontani miraggi: belle topoline, lavoro, felicità, ricchezza, una bella macchina, un "Car" come la chiamavano gli amici che aveva lasciato in paese.

Alla Stazione ferroviaria di Amantea venne accompagnato dagli amici e dai parenti, a piedi s'intende, perché in quei tristi giorni nessuno ancora possedeva una bella automobile.

A Napoli s'imbarcò sulla motonave "Vulcania" dal molo Beverelli. Dopo due giorni la nave si fermò a Gibilterra. Michele era felice. Ogni giorno colazione, pranzo e cena. E poi l'Oceano Atlantico. Un mare così grande non l'aveva mai visto. Era diverso e più grande del mare di Amantea che intravedeva dalle colline di "Cannavina". Passava diverse ore in coperta, faceva lunghe passeggiate sul ponte della nave. Non soffriva il mal di mare. Ilrollio della nave lo eccitava. Sbarcò a New York, che grande città! Quando vide quei grandi grattacieli si spaventò. Quando si trovò solo, senza conoscere la lingua, solo per quelle lunghe e larghe vie di New York ed in mezzo a tantissima gente che correva da un marciapiede all'altro, incominciò per la prima volta ad avere paura. Era davvero grande la città di New York. Non potette fare nessun paragone con un'altra città perché Michele aveva visto soltanto Napoli e per giunta di sfuggita e l'aveva vista attraverso i finestrini sporchi di un vecchio tram sgangherato che da Piazza Garibaldi lo aveva portato al porto. Lunghe e lussuose automobili che sfrecciavano per le "Avenue e gli Street", centinaia di taxi gialli che si rincorrevano e sfrecciavano da ogni parte, immense insegne luminose che lampeggiavano e che gli abbagliavano la vista. Vide per la prima volta una grande insegna che reclamava la Coca Cola e la 7up (seven up), ma Michele non sapeva cosa fossero. Poi prese il treno alla Pennsylvania Railroad Station ed arrivò a Colver, in un piccolo centro minerario sperduto in mezzo ai boschi. Il giorno dopo incominciò a lavorare nella coal-mine ( miniera di carbone). Lavoro molto faticoso. Col piccone doveva scavare il carbone e poi caricarlo sui piccoli vagoni. Lavorava otto ore al giorno, ma la paga era buona. Metteva da parte qualche "pezza", così chiamavano il dollaro gli emigranti. Si innamorò di una bella topolona di origine irlandese e fece amicizia con tantissimi topolini che pure loro erano arrivati in America da altri paesi lontani. Incominciò finanche a parlare inglese, un inglese tutto particolare. Aveva imparato il significato del barro, del carro, della giobba, dello scioppo, delle sciuse, dello strittu, del prete, della sciabola, della beccaiarda, del troccoe cioè del bar, dell'automobile, del lavoro, del negozio, delle scarpe, della via, del pane, della pala, del giardino e dell'autocarro. Aveva pure imparato a dire brutte parole come sanimabicci( son of bitch), figlio di puttana.

Voleva far carriera, bruciare le tappe, guadagnare sempre di più, così invece di lavorare otto ore al giorno si mise a lavorare dieci ore e poi dodici ore. Perché, guadagnando sempre di più, voleva sposarsi, comprare casa, comprare una bella Chevrolet rossa, e mandare qualche soldino alla mamma e alle sorelle che aveva lasciato in Italia.

Scriveva spesso alla mamma e le raccontava ogni cosa e dei risparmi che riusciva a mettere da parte nei libretti postali. Faceva enormi sacrifici, dormiva insieme agli altri topolini nelle baracche fatiscenti della compagnia mineraria. Si cucinava da solo, a volte riscaldava il cibo che si trovava nelle famose scatolette di latta. Non si lagnava anche perché per cena c'era sempre qualche fava, qualche fagiolo, qualche pomodoro, qualche spiga di granturco e qualche nocciolina da rosicchiare. La maggior parte dei topolini erano scapoli. In un secondo tempo si facevano raggiungere dai familiari.

Certe volte il topolino Michele si isolava dai compagni e scriveva lettere struggenti alla cara mammina e si metteva a piangere. Si lamentava della lontananza, del clima freddo e pungente, della lingua che non riusciva ad imparare, degli usi e dei costumi molti diversi di quelli che aveva lasciato in Calabria. Quando si avvicinava il Santo Natale i giorni si facevano ancora più tristi e struggente era il ricordo del presepe, degli zampognari, del fuoco del camino, della tavola apparecchiata la sera della vigilia. Sognava la bella terra di Calabria, ma non pensava mai di fare ritorno in Italia perché a Colver il lavoro c'era e la paga era pure molto buona. Aveva nel frattempo cambiato nome. Non si faceva più chiamare Michele ma Mike (Maiche), come Mike Bongiorno, il famoso presentatore della televisione italiana.

Ma un bel giorno tutti i bei sogni ed i castelli in aria fatti dal topolino Mike svanirono. La galleria dove lavorava si riempì improvvisamente di grisou, un gas terribile e micidiale. Una scintilla provocata dai colpi di un piccone fece saltare la miniera di carbone e nelle viscere della terra rimasero seppelliti centinaia di migliaia di topolini. Il numero esatto non si è mai saputo. Fu di certo la più grande tragedia mineraria degli Stati Uniti d'America. Anche Mike vi trovò la morte e il suo corpo non fu mai recuperato, anche perché dopo lo scoppio la miniera fu definitivamente abbandonata. Mamma topo apprese la notizia dal Console Americano di Napoli e dopo pochi giorni morì dal dolore e la sorellina più piccola fu trovata affogata nella "cibbia" dei Quattro Canali.

Questa tragedia, però, non impedì i flussi migratori. Altri topolini andarono a lavorare in Francia, in Belgio, in Germania e in Svizzera. Ora l'ondata migratoria si è quasi esaurita e così l'Italia e la Calabria in particolare, specialmente nella Piana di Rosarno e di Sibari, sono diventate terre di emigranti per migliaia e migliaia di topolini provenienti dal Nord Africa. Hanno tutti la pelle nera. La maggior parte di loro sono clandestini e vengono sfruttati dalla mafia e dalla 'ndrangheta facendoli lavorare nei campi a raccogliere frutta e verdura per quindici ore al giorno, pagandoli poco e poi facendoli dormire in capannoni abbandonati e fatiscenti, stipati come sardine, senza riscaldamenti, senza acqua e senza servizi igienici.. E così come per il topolino Michele ormai Mike 70 anni fa gli Stati Uniti d'America erano "la Merica", oggi per i topolini neri Nord Africani "la Merica" è l'Italia, la piana di Rosarno, la piana di Sibari, il Salento e Villa Literno.

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